L’Altra Europa è nata e
si è sviluppata mettendo in campo alcune idee (non nuove, ma chiare
e coerenti tra loro: la centralità dell’Europa per qualsiasi
processo di trasformazione politica, il rifiuto dell’austerità e
la necessità di ripudiare il debito, l’inclusione nei confronti di
migranti e minoranze di ogni genere, la conversione ecologica come
unica prospettiva in grado di affrontare in forme adeguate la crisi
ambientale e quella economica e occupazionale, il carattere
apartitico della lista); poi raccogliendo adesioni intorno a questa
piattaforma, dandole un simbolo che abbiamo cercato e fortunosamente
trovato in Tsipras, per poi, immergendoci nella società – nelle
piazze, nelle assemblee, nei luoghi di lavoro - per raccogliere le
firme e farci conoscere; infine gestendo senza mezzi una campagna
elettorale affidata prevalentemente, se non esclusivamente, agli
incontri diretti e al passa parola. E’ a questa pratica che noi
dobbiamo la nostra esistenza e la nostra consistenza come corpo
sociale ed è ad essa, senza ovviamente escludere tutti gli altri
mezzi che riusciremo ad attivare, che dobbiamo attenerci o ritornare
se vogliamo crescere e consolidarci.
Dopo il 25 maggio,
sfruttando il nostro modesto successo, avremmo dovuto, da un lato,
valorizzare i collegamenti che il nostro ingresso nel Parlamento
europeo e nel Gue ci mette a disposizione; dall’altro, e anche
grazie a questi collegamenti, mettere la nostra piattaforma alla
prova dei problemi e dei contesti, nazionali e locali, che lo
sviluppo degli avvenimenti ci sottopone; e soprattutto metterla alla
prova con la schiera variegata delle tante organizzazioni, di base e
non, locali e nazionali, che non avevano preso parte, o avevano
guardato con diffidenza, al nostro percorso; ma che erano, ben prima
di noi, impegnati in un serrato confronto con qualche aspetto critico
e decisivo della situazione del loro territorio, o del paese, o
dell’intero pianeta. Entrambe queste cose le abbiamo fatte solo in
minima parte e per lo più male, concentrandoci quasi esclusivamente
sugli ostacoli e le opportunità che incontrava il progetto di un
“processo costituente”. Incagliandoci spesso in un’assurda
contrapposizione tra l’impegno a mantener vivo l’orizzonte
europeo del nostro agire e la necessità di misurarci con le attese e
le emergenze, anche e soprattutto locali, del “fare politica”
giorno per giorno. E soprattutto, nei fatti quando non nell’esplicita
formulazione di alcuni, rimandando al “dopo”, una volta concluso
il nostro consolidamento organizzativo, il compito di confrontarci
con esse.
Invece secondo me non c’è
altra strada per perseguire un vero consolidamento organizzativo che
quello di “far vivere” l’Altra Europa nel contesto in cui si
opera, misurandosi con le scadenze che esso impone. Che non vuol
dire, per venire al principale tema delle divergenze che sono emerse,
partecipare a tutte le scadenze elettorali, locali e regionali, “come
un partito novecentesco”: una cosa che nessuno, a mia conoscenza,
ha mai sostenuto; come nessuno ha mai sostenuto la “centralità”
di questa o quella elezione regionale – e meno che mai di tutte –
per il nostro lavoro. Ma è del tutto evidente che i comitati
territoriali e le compagne e i compagni che hanno deciso di misurarsi
con esse lo hanno fatto non per un’opzione di principio, ma perché
hanno visto in esse un’opportunità per mettere il progetto
dell’Altra Europa alla prova dei problemi concreti del contesto in
cui operano, sfruttando questa occasione per aprire un confronto con
tutte le altre realtà organizzate del loro territorio.
Per questo l’atteggiamento
“agnostico” di guardare a queste iniziative elettorali – e alle
analisi e alle elaborazioni programmatiche a cui hanno messo capo –
come a fatti locali, che non incidono se non marginalmente sul nostro
percorso costituente, e che al massimo lo possono danneggiare nel
caso di un insuccesso, fino al punto di non mettere a disposizione di
tutti, valorizzandola, la documentazione del lavoro che è stato e
viene fatto, mi sembra profondamente sbagliato, oltreché iniquo nei
confronti delle compagne e dei compagni che le hanno promosse. Che
cosa può mai voler dire sviluppare il nostro programma se non
provare a farlo funzionare nelle circostanze concrete di un confronto
che è, comunque la si pensi, politico e non semplicemente
“amministrativo”? E che senso ha sostenere che le elezioni
regionali non sono importanti perché le Regioni non contano niente?
Conta forse di più il Parlamento Europeo ? Contano entrambi
moltissimo per il significato che noi attribuiamo loro con la nostra
iniziativa. D’altronde non ci siamo presentati in Europa, né ci
presenteremo in Italia, o ci presentiamo in qualche Regione o qualche
Comune, per “amministrare bene” l’austerity, la miseria che
politiche decise altrove ci impongono (è questa, peraltro,
l’illusione che ha affondato l’esperienza dei sindaci arancioni);
bensì perché i nostri parlamentari, i nostri consiglieri, i nostri,
eventualmente, sindaci si facciano punto di riferimento e di
aggregazione per le mobilitazioni e le lotte contro di essa. Per
questo è giusto riconoscere le nostre liste regionali come parte
integrante del nostro processo, indipendentemente dai risultati che
conseguiranno, per il fatto che sono una componente della costruzione
del nostro programma; se per programma si intende non l’enunciazione
di obiettivi già noti, ma la ricerca e la verifica della loro
efficacia nel promuovere mobilitazione, lotte, e con esse il
radicamento sociale della nostra organizzazione.
Aggiungo che, sia a
livello locale che a livello generale, l’analisi della fase che
attraversiamo non può prescindere da quello che è l’elemento
principale rispetto al quale tracciare un discrimine tra noi e chi ci
governa: che è la connessione stretta tra crisi ambientale e crisi
economica; o, visto dall’altro verso, il progetto della conversione
ecologica come combinazione irrinunciabile delle risposte ad entrambe
queste crisi. Da un lato questa connessione evidenzia come
l’establishment europeo, e di conseguenza quello italiano – ma
anche quello della governance
globale - si ritrovino da tempo senza una strategia di ampio respiro
e si limitino a rappezzare giorno per giorno i guasti che essi stessi
producono. Certo, puntano a comprimere redditi e diritti della
popolazione al limite della sussistenza (e anche oltre), a
distruggere lo stato sociale e a privatizzare tutto l’esistente, a
partire da quello che resta della natura, del patrimonio storico, dei
beni comuni e dei servizi pubblici locali. Ma si tratta di un
orizzonte sociale definito, di un assetto sociale coerente, o non
piuttosto la sommatoria di spinte e interessi discordanti, che si
combinano insieme sempre meno? Fino a suscitare uno stato di caos, e
di belligeranza armata permanente, ormai evidenti in Afghanistan,
Medio Oriente, Libia o Ukraina. Un caos che, esattamente come la
crisi economica europea, è stato provocato da spinte e interessi ben
identificati; ma che sempre più viene subito invece che agito.
Infatti, in queste condizioni, che cosa hanno mai da promettere
quegli establishment alle popolazioni di cui, con l’inganno o con
la forza, devono comunque ottenere un certo grado di consenso, per lo
meno passivo? Niente, se non il ritornello di una “crescita” che
né arriva né risolverebbe alcunché. E che cosa abbiamo invece da
prospettare noi con la conversione ecologica? Abbiamo una strada
sensata da imboccare per affrontare i nodi delle due crisi epocali
tra loro connesse; e da percorrere “passo dopo passo”, combinando
in forme diverse partecipazione e conflitto, ma sempre mettendo al
centro i temi cruciali dell’occupazione, del reddito,
dell’inclusione, della sostenibilità, della salute, della
convivenza pacifica, della salvaguardia del patrimonio professionale
e impiantistico del tessuto produttivo. Se non saremo capaci di
gestire questo confronto tra noi e loro in termini innanzitutto
culturali - ma di una cultura che si misura giorno per giorno con i
problemi concreti della vita di ciascuno - non riusciremo mai a
sviluppare quello che ci indica il documento di Revelli, cioè “il
massimo di forza da mettere in campo per invertire una tendenza”.
Al momento la sproporzione delle forze è tale che soltanto
l’indicazione di una strada che può essere percorsa e
concretamente verificata giorno per giorno può indurre le forze
sociali a cui ci rivolgiamo a rimettersi in marcia.
Un progetto così
ambizioso dovrebbe metterci in guardia dal rinchiuderci su noi
stessi. Dobbiamo aprirci di più alle variegate componenti del
tessuto sociale in cui operiamo. Per questo ritengo che manchino, nel
documento di Revelli, e soprattutto nella sua parte “costruttiva”,
dei riferimenti sufficienti alla società italiana nelle sue
articolazioni sociali, o politico-sociali, intese in senso lato, cui
si accenna solo di sfuggita con la frase “ogni realtà locale ha la
propria storia e attori politici eterogenei e richiede attenzione
alle specificità di luogo, rispetto delle differenti dinamiche di
territorio". La società italiana non è solo una moltitudine di
persone atomizzate che si schierano - sempre meno - alle elezioni; è
anche contrassegnata da una molteplicità di iniziative che forse non
ha il pari in nessuna altra nazione europea. Solo per guardare dalla
nostra parte – ma una disamina analoga andrebbe fatta sulla parte
avversa, prestando attenzione a fenomeni che troppo ci sfuggono, come
le tifoserie o certa cultura musicale – il tessuto sociale pullula
di iniziative: a parte i partitini (solo per fare un esempio, in
Italia abbiamo più di dieci partitini comunisti, molti dei quali
divisi a loro volta in correnti e frazioni. Troppa grazia! E chi
altri in Europa ne ha così tanti?); altrettanti sono i sindacati di
base (in serrata competizione tra loro, ma comunque più
interessanti, perché con un proprio specifico radicamento sociale);
e poi, comitati e associazioni ambientaliste, civiche, culturali o
antispeciste, circoli ricreativi e sportivi socialmente impegnati,
Gas e Des, movimenti per la casa e occupazioni di edifici pubblici e
privati, reti di studenti, di insegnanti, di ricercatori, di precari,
di medici e infermieri, di contadini, liste civiche, Rsu e la loro
rete contro la legge Fornero, amministrazioni di comuni virtuosi,
cooperative sociali vere, comunità cristiane di base e persino
parrocchie, centri sociali, riviste ed emittenti libere, associazioni
femministe, ecc. Insomma, non siamo di fronte a un "prato
verde", ma a entità che hanno una propria identità, una
propria storia e spesso anche una propria elaborazione sociale o
politica: in molti casi, molto più sviluppata della nostra. Ma se il
nostro processo costituente deve portare alla formazione di una
“coalizione sociale”, che caratteristiche dovrà avere
quest'ultima? Come ci rapportiamo nei confronti di tutte queste
realtà? Le possiamo ignorare? Certamente no. Pensiamo di poterle
inglobare? Neanche, credo. Contiamo forse di egemonizzarne la base,
sfilando loro militanti e membri, senza fare i conti con le
differenze e con le divergenze che esprimono nei nostri confronti?
Oppure è inevitabile affrontare con ciascuna di queste entità - e
si tratta per lo più di organizzazioni locali, diverse da un luogo
all'altro - un confronto alla pari, che deve mettere necessariamente
in discussione tanto le loro convinzioni ed elaborazioni quanto le
nostre? Puntando, prima ancora che a "omogeneizzare" i
rispettivi punti di vista, a promuovere iniziative comuni sui temi
che già ci uniscono. E non è forse questa la sostanza del processo
costituente, o la sua parte principale? La piazza del 25 ottobre ha
certamente messo in evidenza un popolo alla ricerca di una propria
rappresentanza politica; ma non pensiamo che lo si possa conquistare
esibendo un programma generale, Un ruolo del genere va conquistato
pezzo per pezzo, attraverso iniziative comuni con ciascuna delle sue
articolazioni: un lavorio che ha poco a che fare con le dispute e gli
accordi con il ceto politico dei partiti che hanno sostenuto o ancora
sostengono il nostro progetto.
Queste domande mettono in
discussione molte cose. Di certo non il punto di partenza (non c'è
bisogno di dichiarare “l'apertura” del processo costituente: è
già in corso da quando ci siamo messi in moto; o qualcuno di noi
pensava forse che tutto sarebbe finito con le elezioni europee?),
quanto il punto di arrivo, che non sappiamo, e non potremo sapere per
molto, quale possa essere; fermi restando alcuni punti per noi
inderogabili. D’altronde la critica dei partiti (non solo quelli
“novecenteschi”) che sta al centro del lavoro di elaborazione di
Marco Revelli dovrebbe metterci in guardia dalla spinta a “chiudere
il recinto” troppo in fretta.
Sono comunque d’accordo,
per mettere ordine nel nostro lavoro - e per dare legittimità a
organismi che, per forza di cose, ora non ne hanno - di aprire
l’associazione L’Altra Europa (o un’altra associazione
appositamente costituita) alle iscrizioni di tutti coloro che sono
stati parte del nostro processo e di fissare – ora, e non tra nove
mesi – poche regole semplici e certe per procedere alla formazione
dei nostri coordinamenti e alla nomina dei nostri portavoce a tutti i
livelli; e anche per tornare a costituire una cassa comune a cui
attingere per le esigenze inderogabili! Fermo restando che per me
questa deve restare ancora a lungo una soluzione provvisoria, in
attesa di poter meglio definire la nostra fisionomia alla luce di
esperienze che ancora non sono state nemmeno avviate. Una soluzione
aperta non solo a nuovi ingressi individuali, ma anche ad adesioni
collettive di organismi impegnati nelle più svariate iniziative di
partecipazione e di conflitto sui loro territori.
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