martedì 28 ottobre 2014

Note sul documento Revelli di Guido Viale


L’Altra Europa è nata e si è sviluppata mettendo in campo alcune idee (non nuove, ma chiare e coerenti tra loro: la centralità dell’Europa per qualsiasi processo di trasformazione politica, il rifiuto dell’austerità e la necessità di ripudiare il debito, l’inclusione nei confronti di migranti e minoranze di ogni genere, la conversione ecologica come unica prospettiva in grado di affrontare in forme adeguate la crisi ambientale e quella economica e occupazionale, il carattere apartitico della lista); poi raccogliendo adesioni intorno a questa piattaforma, dandole un simbolo che abbiamo cercato e fortunosamente trovato in Tsipras, per poi, immergendoci nella società – nelle piazze, nelle assemblee, nei luoghi di lavoro - per raccogliere le firme e farci conoscere; infine gestendo senza mezzi una campagna elettorale affidata prevalentemente, se non esclusivamente, agli incontri diretti e al passa parola. E’ a questa pratica che noi dobbiamo la nostra esistenza e la nostra consistenza come corpo sociale ed è ad essa, senza ovviamente escludere tutti gli altri mezzi che riusciremo ad attivare, che dobbiamo attenerci o ritornare se vogliamo crescere e consolidarci.
Dopo il 25 maggio, sfruttando il nostro modesto successo, avremmo dovuto, da un lato, valorizzare i collegamenti che il nostro ingresso nel Parlamento europeo e nel Gue ci mette a disposizione; dall’altro, e anche grazie a questi collegamenti, mettere la nostra piattaforma alla prova dei problemi e dei contesti, nazionali e locali, che lo sviluppo degli avvenimenti ci sottopone; e soprattutto metterla alla prova con la schiera variegata delle tante organizzazioni, di base e non, locali e nazionali, che non avevano preso parte, o avevano guardato con diffidenza, al nostro percorso; ma che erano, ben prima di noi, impegnati in un serrato confronto con qualche aspetto critico e decisivo della situazione del loro territorio, o del paese, o dell’intero pianeta. Entrambe queste cose le abbiamo fatte solo in minima parte e per lo più male, concentrandoci quasi esclusivamente sugli ostacoli e le opportunità che incontrava il progetto di un “processo costituente”. Incagliandoci spesso in un’assurda contrapposizione tra l’impegno a mantener vivo l’orizzonte europeo del nostro agire e la necessità di misurarci con le attese e le emergenze, anche e soprattutto locali, del “fare politica” giorno per giorno. E soprattutto, nei fatti quando non nell’esplicita formulazione di alcuni, rimandando al “dopo”, una volta concluso il nostro consolidamento organizzativo, il compito di confrontarci con esse.
Invece secondo me non c’è altra strada per perseguire un vero consolidamento organizzativo che quello di “far vivere” l’Altra Europa nel contesto in cui si opera, misurandosi con le scadenze che esso impone. Che non vuol dire, per venire al principale tema delle divergenze che sono emerse, partecipare a tutte le scadenze elettorali, locali e regionali, “come un partito novecentesco”: una cosa che nessuno, a mia conoscenza, ha mai sostenuto; come nessuno ha mai sostenuto la “centralità” di questa o quella elezione regionale – e meno che mai di tutte – per il nostro lavoro. Ma è del tutto evidente che i comitati territoriali e le compagne e i compagni che hanno deciso di misurarsi con esse lo hanno fatto non per un’opzione di principio, ma perché hanno visto in esse un’opportunità per mettere il progetto dell’Altra Europa alla prova dei problemi concreti del contesto in cui operano, sfruttando questa occasione per aprire un confronto con tutte le altre realtà organizzate del loro territorio.
Per questo l’atteggiamento “agnostico” di guardare a queste iniziative elettorali – e alle analisi e alle elaborazioni programmatiche a cui hanno messo capo – come a fatti locali, che non incidono se non marginalmente sul nostro percorso costituente, e che al massimo lo possono danneggiare nel caso di un insuccesso, fino al punto di non mettere a disposizione di tutti, valorizzandola, la documentazione del lavoro che è stato e viene fatto, mi sembra profondamente sbagliato, oltreché iniquo nei confronti delle compagne e dei compagni che le hanno promosse. Che cosa può mai voler dire sviluppare il nostro programma se non provare a farlo funzionare nelle circostanze concrete di un confronto che è, comunque la si pensi, politico e non semplicemente “amministrativo”? E che senso ha sostenere che le elezioni regionali non sono importanti perché le Regioni non contano niente? Conta forse di più il Parlamento Europeo ? Contano entrambi moltissimo per il significato che noi attribuiamo loro con la nostra iniziativa. D’altronde non ci siamo presentati in Europa, né ci presenteremo in Italia, o ci presentiamo in qualche Regione o qualche Comune, per “amministrare bene” l’austerity, la miseria che politiche decise altrove ci impongono (è questa, peraltro, l’illusione che ha affondato l’esperienza dei sindaci arancioni); bensì perché i nostri parlamentari, i nostri consiglieri, i nostri, eventualmente, sindaci si facciano punto di riferimento e di aggregazione per le mobilitazioni e le lotte contro di essa. Per questo è giusto riconoscere le nostre liste regionali come parte integrante del nostro processo, indipendentemente dai risultati che conseguiranno, per il fatto che sono una componente della costruzione del nostro programma; se per programma si intende non l’enunciazione di obiettivi già noti, ma la ricerca e la verifica della loro efficacia nel promuovere mobilitazione, lotte, e con esse il radicamento sociale della nostra organizzazione.
Aggiungo che, sia a livello locale che a livello generale, l’analisi della fase che attraversiamo non può prescindere da quello che è l’elemento principale rispetto al quale tracciare un discrimine tra noi e chi ci governa: che è la connessione stretta tra crisi ambientale e crisi economica; o, visto dall’altro verso, il progetto della conversione ecologica come combinazione irrinunciabile delle risposte ad entrambe queste crisi. Da un lato questa connessione evidenzia come l’establishment europeo, e di conseguenza quello italiano – ma anche quello della governance globale - si ritrovino da tempo senza una strategia di ampio respiro e si limitino a rappezzare giorno per giorno i guasti che essi stessi producono. Certo, puntano a comprimere redditi e diritti della popolazione al limite della sussistenza (e anche oltre), a distruggere lo stato sociale e a privatizzare tutto l’esistente, a partire da quello che resta della natura, del patrimonio storico, dei beni comuni e dei servizi pubblici locali. Ma si tratta di un orizzonte sociale definito, di un assetto sociale coerente, o non piuttosto la sommatoria di spinte e interessi discordanti, che si combinano insieme sempre meno? Fino a suscitare uno stato di caos, e di belligeranza armata permanente, ormai evidenti in Afghanistan, Medio Oriente, Libia o Ukraina. Un caos che, esattamente come la crisi economica europea, è stato provocato da spinte e interessi ben identificati; ma che sempre più viene subito invece che agito. Infatti, in queste condizioni, che cosa hanno mai da promettere quegli establishment alle popolazioni di cui, con l’inganno o con la forza, devono comunque ottenere un certo grado di consenso, per lo meno passivo? Niente, se non il ritornello di una “crescita” che né arriva né risolverebbe alcunché. E che cosa abbiamo invece da prospettare noi con la conversione ecologica? Abbiamo una strada sensata da imboccare per affrontare i nodi delle due crisi epocali tra loro connesse; e da percorrere “passo dopo passo”, combinando in forme diverse partecipazione e conflitto, ma sempre mettendo al centro i temi cruciali dell’occupazione, del reddito, dell’inclusione, della sostenibilità, della salute, della convivenza pacifica, della salvaguardia del patrimonio professionale e impiantistico del tessuto produttivo. Se non saremo capaci di gestire questo confronto tra noi e loro in termini innanzitutto culturali - ma di una cultura che si misura giorno per giorno con i problemi concreti della vita di ciascuno - non riusciremo mai a sviluppare quello che ci indica il documento di Revelli, cioè “il massimo di forza da mettere in campo per invertire una tendenza”. Al momento la sproporzione delle forze è tale che soltanto l’indicazione di una strada che può essere percorsa e concretamente verificata giorno per giorno può indurre le forze sociali a cui ci rivolgiamo a rimettersi in marcia.
Un progetto così ambizioso dovrebbe metterci in guardia dal rinchiuderci su noi stessi. Dobbiamo aprirci di più alle variegate componenti del tessuto sociale in cui operiamo. Per questo ritengo che manchino, nel documento di Revelli, e soprattutto nella sua parte “costruttiva”, dei riferimenti sufficienti alla società italiana nelle sue articolazioni sociali, o politico-sociali, intese in senso lato, cui si accenna solo di sfuggita con la frase “ogni realtà locale ha la propria storia e attori politici eterogenei e richiede attenzione alle specificità di luogo, rispetto delle differenti dinamiche di territorio". La società italiana non è solo una moltitudine di persone atomizzate che si schierano - sempre meno - alle elezioni; è anche contrassegnata da una molteplicità di iniziative che forse non ha il pari in nessuna altra nazione europea. Solo per guardare dalla nostra parte – ma una disamina analoga andrebbe fatta sulla parte avversa, prestando attenzione a fenomeni che troppo ci sfuggono, come le tifoserie o certa cultura musicale – il tessuto sociale pullula di iniziative: a parte i partitini (solo per fare un esempio, in Italia abbiamo più di dieci partitini comunisti, molti dei quali divisi a loro volta in correnti e frazioni. Troppa grazia! E chi altri in Europa ne ha così tanti?); altrettanti sono i sindacati di base (in serrata competizione tra loro, ma comunque più interessanti, perché con un proprio specifico radicamento sociale); e poi, comitati e associazioni ambientaliste, civiche, culturali o antispeciste, circoli ricreativi e sportivi socialmente impegnati, Gas e Des, movimenti per la casa e occupazioni di edifici pubblici e privati, reti di studenti, di insegnanti, di ricercatori, di precari, di medici e infermieri, di contadini, liste civiche, Rsu e la loro rete contro la legge Fornero, amministrazioni di comuni virtuosi, cooperative sociali vere, comunità cristiane di base e persino parrocchie, centri sociali, riviste ed emittenti libere, associazioni femministe, ecc. Insomma, non siamo di fronte a un "prato verde", ma a entità che hanno una propria identità, una propria storia e spesso anche una propria elaborazione sociale o politica: in molti casi, molto più sviluppata della nostra. Ma se il nostro processo costituente deve portare alla formazione di una “coalizione sociale”, che caratteristiche dovrà avere quest'ultima? Come ci rapportiamo nei confronti di tutte queste realtà? Le possiamo ignorare? Certamente no. Pensiamo di poterle inglobare? Neanche, credo. Contiamo forse di egemonizzarne la base, sfilando loro militanti e membri, senza fare i conti con le differenze e con le divergenze che esprimono nei nostri confronti? Oppure è inevitabile affrontare con ciascuna di queste entità - e si tratta per lo più di organizzazioni locali, diverse da un luogo all'altro - un confronto alla pari, che deve mettere necessariamente in discussione tanto le loro convinzioni ed elaborazioni quanto le nostre? Puntando, prima ancora che a "omogeneizzare" i rispettivi punti di vista, a promuovere iniziative comuni sui temi che già ci uniscono. E non è forse questa la sostanza del processo costituente, o la sua parte principale? La piazza del 25 ottobre ha certamente messo in evidenza un popolo alla ricerca di una propria rappresentanza politica; ma non pensiamo che lo si possa conquistare esibendo un programma generale, Un ruolo del genere va conquistato pezzo per pezzo, attraverso iniziative comuni con ciascuna delle sue articolazioni: un lavorio che ha poco a che fare con le dispute e gli accordi con il ceto politico dei partiti che hanno sostenuto o ancora sostengono il nostro progetto.
Queste domande mettono in discussione molte cose. Di certo non il punto di partenza (non c'è bisogno di dichiarare “l'apertura” del processo costituente: è già in corso da quando ci siamo messi in moto; o qualcuno di noi pensava forse che tutto sarebbe finito con le elezioni europee?), quanto il punto di arrivo, che non sappiamo, e non potremo sapere per molto, quale possa essere; fermi restando alcuni punti per noi inderogabili. D’altronde la critica dei partiti (non solo quelli “novecenteschi”) che sta al centro del lavoro di elaborazione di Marco Revelli dovrebbe metterci in guardia dalla spinta a “chiudere il recinto” troppo in fretta.
Sono comunque d’accordo, per mettere ordine nel nostro lavoro - e per dare legittimità a organismi che, per forza di cose, ora non ne hanno - di aprire l’associazione L’Altra Europa (o un’altra associazione appositamente costituita) alle iscrizioni di tutti coloro che sono stati parte del nostro processo e di fissare – ora, e non tra nove mesi – poche regole semplici e certe per procedere alla formazione dei nostri coordinamenti e alla nomina dei nostri portavoce a tutti i livelli; e anche per tornare a costituire una cassa comune a cui attingere per le esigenze inderogabili! Fermo restando che per me questa deve restare ancora a lungo una soluzione provvisoria, in attesa di poter meglio definire la nostra fisionomia alla luce di esperienze che ancora non sono state nemmeno avviate. Una soluzione aperta non solo a nuovi ingressi individuali, ma anche ad adesioni collettive di organismi impegnati nelle più svariate iniziative di partecipazione e di conflitto sui loro territori.



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